Spose in viaggio: intervista a Silvia Moro
Abbiamo incontrato Silvia al suo ritorno a Milano.
Una lunga chiacchierata per parlare del progetto Brides on tour.
di Amedeo Novelli
Spiegaci come è nato Spose in viaggio?
Il progetto è nato da un incontro con Pippa.
Tutto è cominciato dall'immagine di una sposa in viaggio in autostop. Sebbene avessi meno esperienze di viaggi di questo tipo, rispetto a quella ormai consolidata di Pippa, come folgorata dall'idea di questa sposa errante ho accettato la sua proposta senza esitazioni.
Da quel momento ci siamo buttate a capofitto nel lavoro di sviluppo del progetto, ciascuna con la propria poetica e ricerca artistica.
Abbiamo così via via arricchito l’immagine iniziale, nel rispetto delle differenze che ci distinguevano, con i contenuti che ci hanno poi guidato per tutta la durata del viaggio. Due viaggi paralleli uniti dal medesimo progetto: le spose in viaggio.
Il vestito da sposa è l'elemento simbolo del progetto. Qual è il vero senso di questa scelta?
L'abito da sposa, anzi la figura della sposa è un'immagine con un altissimo potere simbolico.
Un potere così grande che l'abito bianco è diventato un'icona capace di oltrepassare i suoi confini religiosi.
L’abito da sposa è soprattutto il simbolo del matrimonio fra la terra e il cielo, fra le genti, le culture e le diversità. Anche il fatto di essere in due ha poi un suo significato, perché il due è il numero del femminino, del procedere, dell’incontro con l’altro e con la diversità.
Due spose intenzionate ad incontrare, a conoscere aspetti dell’universo femminile nei paesi che avrebbero attraversato nel loro viaggio, molti dei quali ancora sconvolti da guerre e conflitti più o meno recenti.
Perché la sposa è anche un simbolo di purezza, capace di generare la vita.
Quali erano gli obiettivi di Spose in viaggio?
In ultima analisi questa lunga performance, questo viaggio in autostop attraverso i paesi sconvolti dalle guerre era finalizzato alla diffusione di un messaggio di pace, di fiducia nelle persone che avremmo incontrato lungo il nostro percorso.
Volevamo essere testimoni dei rapporti di reciprocità fra le diverse culture, con particolare riferimento alla figura e al ruolo femminile, raccogliendo documentazioni scritte, ma anche video e fotografie di questi incontri, delle vite, dei lavori e delle condizioni delle donne.
E come in una vera performance itinerante eravamo pronte anche ad assistere alle variabili,intrinseche alle performance realizzate in luoghi pubblici, dove lo spettatore e l’artista si confondono l’un l’altro.
Ostetriche e ricamatrici, perché?
Pippa ha individuato come punto nodale della sua ricerca artistica un gesto altamente simbolico: lavare i piedi alle ostetriche per onorare il mestiere più antico del mondo ,che rende possibile la nascita.
Registrando le loro voci le invitava a spiegare cosa significava per loro la nascita, la vita a cui loro stesse contribuivano ogni giorno col loro mestiere.
Un incontro e un confronto sereno che quasi sempre faceva emergere anche le loro paure, le loro gioie e le loro sensazioni al momento in cui diventavano madri a loro volta.
Le ostetriche a volte venivano contattate direttamente da Pippa, altre volte dalle stesse famiglie che ci stavano ospitando.
Prima di incontrare Pippa alcune di loro erano perplesse, quasi diffidenti, perché non comprendevano il significato del lavare loro i piedi.
Come d'incanto però, giunte di fronte a Pippa era come se scattasse qualcosa in loro: le vedevo sedersi in totale fiducia, affidare i propri piedi alle mani della mia compagna, rispondere alle domande, emozionarsi, donandole a volte alcune risposte del tutto sorprendenti.
Come è nata invece l'idea del ricamo?
Io ho scelto di incontrare le ricamatrici locali e le artiste perché il ricamo è da sempre un elemento centrale degli abiti da sposa e non solo.
Le donne del mediterraneo conoscono il ricamo da tempi davvero antichissimi e questa tecnica di decorazione ha varcato i confini tra culture molto prima che lo facessero le persone stesse.
Desideravo che le ricamatrici incontrate lungo il percorso da Milano alla Palestina facessero degli interventi sul mio abito affinché esso stesso diventasse la testimonianza della contaminazione fra le culture con cui sarei entrata in contatto durante il viaggio.
Ho visto così il mio abito cambiare giorno dopo giorno, grazie a mani e pensieri diversi, trasformandomi da “sposina” occidentale in una figura che era in qualche misura la sintesi di tutte le spose. Presto ho anche scoperto che il mio stesso abito era diventato un mezzo di comunicazione: alle donne che incontravo potevo spiegare il nostro percorso e il progetto anche solo mostrando i ricami via via aggiunti all’abito originale.
Tutti i nostri incontri sono avvenuti all'interno di abitazioni private, di ospedali oppure presso una serie di gallerie d’arte come è successo all’Alkatraz a Ljubliana, al Museo di Arte Contamporanea di Banja Luca, al Some Space e Ars Aevi a Sarajevo, al Magazin in Kraljevica Markain a Belgrado, e all'Artik e BM Suma a Istanbul.
Dopo quanto accaduto a Pippa, molti hanno criticato soprattutto la scelta dell'autostop. Ce ne spieghi il significato?
Abbiamo optato per questo modo di viaggiare perché presuppone una scelta di fiducia nel prossimo che ti permette di entrare in contatto diretto con le persone del luogo. Perché è un mezzo lento e senza mediazioni economiche.
Che tipo di persone si fermavano per darvi un passaggio?
Direi che non è possibile tracciare un profilo unico, anzi la meraviglia che scaturiva era data dal fatto che nel nostro percorso siamo state aiutate od ospitate da ogni genere di persone: contadini, studenti, lavoratori, camionisti ma anche manager o uomini d'affari.
E cosa pensavano vedendo voi due sul ciglio della strada di bianco vestite?
Qualcuno ci scambiava per due angeli, qualcuno per due spose in fuga, altri ancora si fermavano proprio per chiederci che cosa ci facessimo nel mezzo della Bosnia vestite da sposa e in autostop.
Alcuni, invece, senza fare domande ci davano un passaggio per la semplice ragione che lo si deve fare e basta.
Ci sono state situazioni che ti hanno colpito in modo particolare?
Sì molte.
Qualcuno per esempio si è spinto 120 km oltre il proprio percorso, pur di accompagnarci sino alla frontiera.
Altri ci hanno offerto pranzi in meravigliosi villaggi di cui non conoscevamo nemmeno l'esistenza. Una volta, perfino un tassista ha rinunciato al suo guadagno e ci ha accompagnato nei pressi della nostra meta.
Qualcuno ci ha addirittura fatto fare più di una deviazione pur di farci incontrare la propria comunità. Perfino in un'area di servizio in mezzo al nulla abbiamo trovato persone desiderose di incontrarci, di parlare con noi anche se solo attraverso gesti e parole.
Dove dormivate e chi vi ospitava di solito?
Siamo riuscite a sviluppare gran parte dei contatti prima della partenza, grazie alla collaborazione di amici che contattavano altri amici, all’appoggio di associazioni. Talvolta le gallerie d’arte stesse hanno procurato una stanza in albergo, grazie alla rete Servas, un network di ospitalità internazionale che non ha fini di lucro. In questo modo siamo state ospitate dalle persone più disparate: pensionati, artiste, sognatori ma anche tante persone “normali”.
La gran parte delle persone ci ha ospitate senza conoscerci e senza nemmeno immaginare che cosa potesse significare ospitare due spose in viaggio che avrebbero riempito i loro soggiorni ordinati di tutti i loro bianchi orpelli, elaborati, perline, pizzi e panni stesi, eppure senza batter ciglio siamo sempre state accolte calorosamente. Abbiamo potuto sederci alla tavola dei nostri ospiti e conoscerli come se fossimo parte delle loro famiglie.
Chi ha finanziato e sostenuto il progetto?
Il progetto è stato autofinanziato: sia io che Pippa abbiamo entrambe un lavoro, grazie al quale ci è sempre stato possibile continuare le nostre ricerche e realizzazioni artistiche.
Abbiamo lavorato veramente sodo ogni giorno per sviluppare una rete di contatti disposti a capire la nostra performance e darci ospitalità, scrivendo, telefonando e usando il web. Nessuno ha dato un contributo economico diretto al progetto, ogni nostro collaboratore non ha né dato né ricevuto denaro.
Anzi, con nostro grande stupore, giorno dopo giorno abbiamo assistito alla creazione di un vero e proprio network di persone e aziende che hanno creduto nel progetto Spose in viaggio.
Come Byblos, e in particolare Masha Facchini, che ha sostenuto la realizzazione dell’abito e che ci apriva le porte della Byblos Art Gallery per la nostra prima mostra in italia.
Come Fotoup.net che ha messo a disposizione la sua redazione e ha creato il nostro sito web. Come Terra del Fuoco che ci ha procurato un registratore digitale. Come JVC che ha fornito le videocamere. Come l’associazione culturale Casa Morigi, l'associazione culturale Erodoto, Love Difference, Franca Bertagnolli, e tanti tanti altri, amici di amici, artisti, ispiratori ed ispiratrici che hanno collaborato al componimento di questo progetto e alla sua realizzazione.
Quali sono le tue considerazioni oggi?
Il valore e il significato del nostro progetto è stato confermato giorno dopo giorno dalla ricchezza dei nostri incontri.
La performance non portava avanti un messaggio di protesta ma ha sempre avuto come unico obbiettivo l’incontro con l’altro attraverso la fiducia, per raccontare le persone, le differenze e il loro superamento come fonte di arricchimento e non come limite.
Viaggiare con mezzi semplici è importante, mette concretamente in relazione le persone nella condivisione di un tragitto, di un silenzio, di un sorprendente paesaggio, di un thè o di un pasto.
Allontanarsi dai voli in business class per viaggiare a piedi consente di comprendere dove ci si trova e, comprendere il “dove”, permette di accettare le diversità e di viverle come punto di partenza per la costruzione di relazioni pacifiche.
Poi però a Pippa è successa una cosa terribile.
Non pensi che questo cambi un po' le cose?
La tragica morte di Pippa ovviamente dimostra quanto possa essere ancora pericoloso e difficile cercare di mettere in pratica relazioni pacifiche e costruttive nel nome delle diversità, ma non bisogna arrendersi. Ora più che mai, non dobbiamo avere paura del prossimo, dobbiamo andare avanti, continuare a superare barriere politiche e culturali cercando di entrare in contatto con le persone, condividendo per quanto possibile la loro vita, le loro abitudini e la loro cultura.
Cosa pensi di quanto accaduto a Pippa?
In questo momento in me c’è il rifiuto che questo viaggio, che parla di matrimonio fra le genti, sia stato interrotto da un mostro.
Ma i mostri non hanno nessun passaporto né nazionalità.
Sono una milionesima minoranza che non deve assolutamente impedirci di andare avanti a ribadire l’importanza dell’incontro in nome delle diversità, della loro comprensione e della loro accettazione.
Dobbiamo usare qualsiasi mezzo possibile a nostra disposizione per parlare di pace e rifiutare qualsiasi forma di guerra e di violenza sulla terra.
Pippa ci ha lasciato qui ora con molti quesiti, in questo indiscutibile dolore, sorprendendoci per come, suo malgrado, stia assolvendo al ruolo di artista, che, destabilizzando le nostre certezze, ci spinge violentemente a chiederci che cosa sia arte, che cosa sia vita e che cosa sia pace. E ci lascia il compito di non arrenderci alle forti contraddizioni che il vivere stesso ci presenta.
Cosa ne sarà del vostro progetto, del vostro viaggio?
Nel nostro progetto iniziale avevamo pensato a una serie di mostre in Italia ma volevamo anche sviluppare un'esposizione itinerante conclusiva presso le gallerie e i musei che ci avrebbero via via ospitato durante il nostro tragitto dall'Italia alla Palestina.
Io sono fortemente determinata a far sì che tutto ciò diventi realtà.
Il viaggio delle spose riprenderà là dove si è interrotto?
Oggi credo ci sia bisogno di riposo e silenzio.
Ma ogni giorno di più mi vado convincendo che per onorare il nostro progetto e le intenzioni di Pippa, sia doveroso non interromperlo a Istanbul.
Se non arrivassi in Israele mi sembrerebbe di tradire la mia compagna e con lei tutte le persone che abbiamo incontrato, tutte le persone che hanno creduto al messaggio che stavamo diffondendo.
Al momento però non so dirvi né come, né quando.
Posso solo anticipare che, sparse lungo il nostro tragitto, diverse artiste si sono dette intenzionate a indossare l’abito da sposa per completare questo viaggio interrotto.